6 novembre 2012

Furto, con lucro, dello Stato sociale

* di Luciano Gallino


Lo Stato sociale non è una merce e non è una merce il modello sociale europeo che lo ha rappresentato. Perché lo Stato sociale rappresenta la realizzazione di alcuni princìpi universali esplicitati, ad esempio, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e nella nostra Costituzione. Ma oggi in Europa è in corso il tentativo di affermare che lo Stato sociale e il modello sociale europeo siano delle merci da trasformare in qualcosa di commerciabile e vendibile. Lo si fa in diversi modi, innanzitutto con un mare di pubblicazioni che insistono su una serie di punti che, pur non essendo sostenuti o confermati dall'evidenza empirica, fanno presa su tutti, perfino su chi non ci crede.
Si dice, ad esempio,...........
che le spese per la sanità continuano follemente ad aumentare, in parte perché i progressi della medicina e della chirurgia allungano la durata e migliorano la qualità della vita, richiedendo però tecnologie sempre più costose. La conseguenza è che si dovrebbero curare solo alcuni pazienti sulla base di criteri di redditività ed efficienza delle persone. Si afferma, poi, che la spesa pensionistica aumenta senza sosta perché le persone non muoiono poco dopo essere andate in pensione e si «permettono» di vivere in media circa vent’anni oltre il loro collocamento a riposo. E le casse pensionistiche – fanno notare i critici dello Stato sociale – ne risentono gravemente. Infine si insiste anche sul fatto che i sistemi di protezione dell’occupazione e le indennità per la perdita del lavoro incentivano le persone a restare attaccate al posto che hanno, se non a preferire persino la disoccupazione alla ricerca del lavoro.
Rappresentativa di queste impostazioni è una pubblicazione del Fondo monetario internazionale sul sistema previdenziale – un rapporto «scientifico» destinato ai governi europei, tutti d’accordo ad attaccare il modello sociale europeo – che lancia un allarme relativo al rischio longevità. Il rischio deriverebbe dall’aver sottostimato la speranza dell’aumento di vita e l'Fmi sostiene che se le persone arrivassero a vivere anche solo 3 anni in più di quanto previsto dalle stime utilizzate per le ultime riforme delle pensioni (in Italia, Francia, Germania) i costi generati dall’invecchiamento potrebbero aumentare del 50% e ciò potrebbe consumare il 50% del Pil dei paesi avanzati. Così l’Fmi propone il prolungamento dell’età pensionabile parallelamente alla crescita della longevità: che vuol dire spostare l'età di pensionamento verso i 75, 80 anni. Come glossa è da notare che i dipendenti dell’Fmi possono andare in pensione a 50 anni e mediamente ci vanno a 62.
Su cosa regge l’affermazione che lo Stato sociale costa troppo? Che i colpevoli dell’aumento del debito pubblico sono lo Stato sociale, le spese eccessive in campo previdenziale, sanitario, scolastico? E che, quindi, bisogna ridurre queste spese (che è quello che i governi fanno, con particolare accanimento anche quello italiano)?
Le cifre non confermano che il colpevole dell’aumento del deficit pubblico sia il modello sociale europeo. È vero che tra l’estate 2007 – quando inizia la crisi – e la primavera del 2010 il deficit dei bilanci publici dei paesi Ue è notevolmente cresciuto. Di dieci volte in pochi anni, dallo 0,7 al 7% in tre anni. In parallelo è cresciuto anche il debito pubblico di tutta l’Ue di ben 20 punti, dal 60 all’80% in media. E sono tanti soldi, visto che il Pil complessivo della Ue è di 15.000 miliardi di euro. Ma se si va a vedere dove è nata questa voragine nei conti pubblici si scopre che la grande parte del debito aggiunto deriva dal salvataggio degli enti finanziari europei e non dalla spesa sociale. Tra l’ottobre 2008 e l’aprile 2010 i governi Ue hanno reso disponibili 4.113 miliardi di euro in forma diretta o con garanzie per sostenere i gruppi finanziari colpiti dalla crisi. In parte con piani nazionali – tra i più consistenti quello inglese, un trilione e mezzo di euro e quello tedesco, analogo – e con interventi comunitari. Quella somma, 4.113 miliardi di euro, corrisponde a un terzo del Pil dell’Unione, equivale al Pil aggregato di Italia, Francia e Regno Unito. E dinanzi a queste catastrofi «è chiaro» che bisogna tagliare le pensioni a chi ha circa 800 euro al mese, se non meno.
Nello stesso periodo la spesa sociale pubblica dei paesi Ue, al netto della maggior spesa contingente per sussidi e cig, è rimasta sostanzialmente stabile attorno al 25% del Pil. Una quota pressoché immutata dalla fine degli anni 90: sembra difficile capire come si possa imputare all’eccessiva generosità dello Stato sociale il deficit dei bilanci pubblici e il debito accumulato. In realtà questa è un idea imposta e diffusa con ogni immaginabile mezzo per sconfiggere l’idea che lo Stato sociale non è una merce. È un’idea che serve a mercificare tutti i pezzi possibili del modello sociale europeo, con un notevole risvolto economico, perché se si potesse sottrarre al controllo degli Stati il 25 % del Pil (la spesa sociale) si metterebbe in gioco una cifra di circa 3.800 miliardi l’anno di prestazioni su cui «fare mercato», facendo di sanità, assistenza, istruzione, merci da vendere tra chi le produce e chi è in grado di comprarle. Gli altri – quelli che non potrebbero permettersele – dovrebbero aggiustarsi in qualche modo. E, poi, c'è anche un risvolto strettamente politico, perché come scrivevano Karl Polanyi e Hannah Arendt, la privatizzazione di beni di questo tipo comporta una grave lesione per la democrazia e la partecipazione politica, per una democrazia autentica. Perché la mercificazione impedisce di discutere con chi vende servizi sociali o sanità, che fanno il prezzo e determinano la platea dei «clienti». E se la democrazia non è partecipazione anche a livelli diciamo «elementari» della vita pubblica, la democrazia non è niente.
*Dall'intervento svolto a Torino, il 7 ottobre, all'assemblea nazionale di Alba

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